Nelli Feroci: “Gaza? Servono fatti non parole: sì allo Stato di Palestina, stop agli accordi con Israele”

Parola l'ambasciatore
«L’appello è rivolto al governo italiano, ma non solo: non ci si può più limitare a parole di generica condanna. Servono misure concrete, che facciano pressione su Israele»

Riconoscere lo Stato palestinese. Se non ora, quando? Di questo e di molto altro L’Unità discute con l’Ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, già presidente dell’Istituto affari internazionali (Iai), tra i più autorevoli think tank italiani di geopolitica e politica estera. Diplomatico di carriera dal 1972 al 2013, Nelli Feroci è stato Rappresentante permanente d’Italia presso l’Unione Europea a Bruxelles (2008-2013), capo di gabinetto (2006-2008) e direttore generale per l’integrazione europea (2004-2006) presso il Ministero degli Esteri. L’ambasciatore Nelli Feroci ha anche ricoperto l’incarico di Commissario europeo per l’industria e l’imprenditoria nella Commissione Barroso II nel 2014. Per competenza ed esperienza, una autorità nel campo delle relazioni internazionali.
Ambasciatore Nelli Feroci, lei è uno dei quaranta ambasciatori che hanno firmato l’appello alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni affinché l’Italia riconosca lo Stato di Palestina. Perché oggi? Nell’appello non c’è solo il riconoscimento dello Stato di Palestina, ci sono anche molte altre richieste concrete. Perché oggi? Perché la situazione a Gaza è diventata letteralmente intollerabile, inaccettabile. Non si può assistere ulteriormente a questa strage sistematica di popolazione civile, al diniego degli aiuti umanitari, all’uccisione di bambini innocenti, all’uso della fame come strumento di pressione politica, senza fare nulla. L’appello nasce dalla constatazione che di fronte ad uno stato di fatto di queste dimensioni, ad una situazione di una gravità di questo spessore, non ci si poteva limitare a espressioni di generica condanna, di esecrazione, deplorazione. L’appello è rivolto al Governo italiano, e non solo, perché prenda delle misure concrete, nel senso di misure che siano in grado di esercitare pressione sul Governo israeliano. C’è sì la richiesta del riconoscimento dello Stato di Palestina, che forse è la più controversa e la più discussa, ma ci sono anche altre tre richieste importanti.
Quali? La prima è la sospensione di qualsiasi forma di collaborazione con Israele nel campo della difesa, in quello militare. La seconda, è la richiesta di sanzioni individuali nei confronti di quei membri del Governo d’Israele che più sistematicamente e con brutale nettezza hanno chiesto di annettere allo Stato d’Israele il territorio di Gaza e territori della Cisgiordania. I più tristemente famosi sono Smotrich e Ben-Gvir, ma non sono solo loro. La terza richiesta, forse quella politicamente più pesante, è di unirsi agli altri Paesi europei che si sono già pronunciati a favore della sospensione dell’Accordo di associazione Ue-Israele. Una decisione che avrebbe sicuramente un significato politico-reputazionale, ma che avrebbe anche un impatto significativo sulle relazioni economiche tra l’Unione europea e Israele. Poi c’è la richiesta del riconoscimento dello Stato di Palestina.
Perché, a suo avviso, nonostante cresca il numero di leader europei, dopo il presidente francese Emmanuel Macron, il premier britannico Keir Starmer e altri ancora, che criticano fortemente il pugno di ferro israeliano a Gaza e si pronunciano per il riconoscimento dello Stato di Palestina, l’Italia continua a recalcitrare? Buona domanda, che andrebbe posta direttamente a chi ha responsabilità di Governo, anche se va detto che sia il Governo italiano che quello tedesco hanno precisato che un eventuale riconoscimento dello Stato di Palestina dovrebbe aver luogo a completamento di un processo negoziale più ampio e nel quadro di una soluzione complessiva della questione palestinese. È vero che oggi il riconoscimento dello Stato di Palestina avrebbe scarso impatto operativo, perché lo Stato non esiste. Non c’è un territorio su cui il popolo palestinese possa esercitare la propria sovranità. Però avrebbe il significato di una messa in guardia nei confronti del Governo israeliano che politiche di annessione di territori contigui a Israele, come Gaza e la Cisgiordania, sarebbe inaccettabile ed è contraria a quel desidero che comunque, nonostante tutto, continua a ispirare la nostra linea nei confronti della questione palestinese, cioè l’idea che a un certo punto si debba mettere in cantiere una soluzione negoziale fondata sul principio “due popoli, due Stati”.
Su La Stampa, Nathalie Tocci, direttrice dell’Istituto Affari internazionali, di cui lei è stato presidente, ha scritto un articolo molto incalzante, titolato “Gaza e Ucraina: due pesi e due misure dell’Occidente”. È così? Confesso di non avere avuto modo di leggere l’articolo in questione, ma so bene quale sia il punto di vista di Nathalie sull’Ucraina e sulla situazione a Gaza. Vede, noi europei nei confronti della Russia abbiamo adottato sanzioni pesanti, ben 18 pacchetti. Abbiamo deciso di condannare in maniera più che esplicita l’aggressione russa, abbiamo deciso di sostenere con tutti i mezzi possibili il Paese aggredito, l’Ucraina. Nei confronti della situazione che si è venuta creare in Medio Oriente, in particolare a Gaza, la nostra politica è molto più debole, si fa meno sentire, è molto meno visibile. Non ci sono sanzioni nei confronti d’Israele, l’assistenza ai palestinesi nella migliore delle ipotesi, quando ci riusciamo, è di tipo umanitario. È vero che la storia e l’evoluzione della crisi nasce da origini diverse, c’è l’orrendo massacro del 7 Ottobre 2023, però effettivamente la sensazione che, rispetto a questi due conflitti, l’Occidente abbia usato due pesi e due misure, è abbastanza fondata.
Non crede che questo doppiopesismo renda l’Occidente, e in particolare l’Europa, meno credibile agli occhi del restante mondo? Sicuramente è così. Ci è stato rimproverato fin dall’inizio, quando abbiamo adottato le prime sanzioni nei confronti della Russia. Il doppiopesismo occidentale in questa vicenda è clamoroso. E la totale assenza di iniziativa politica sul fronte mediorientale è altrettanto clamorosa. Va detto che mentre sull’Ucraina si è finora riusciti a mantenere una unità d’azione, abbastanza eccezionale per un gruppo di Paesi alquanto eterogenei come quelli membri dell’Unione europea, le sensibilità sulla questione israelo-palestinese e, in generale, sui rapporti con Israele, sono molto differenziate all’interno del gruppo dei membri dell’Unione. Il che rende molto complicata l’adozione di posizioni comuni. Con il risultato che spesso ci si appiattisce sul minimo comune denominatore.
Questo minimo comune denominatore non incide neanche su un altro terreno di scontro tra l’Europa e l’amministrazione Trump: quello dei dazi. Sono stati scritti fiumi d’inchiostro sull’accordo raggiunto in Scozia qualche giorno fa tra Trump e von der Leyen. Il giudizio è generalmente molto negativo, tra gli economisti, tra i politici, tra i politologi. Si ritiene, in buona sostanza, che la Commissione europea e la sua presidente si siano mossi in maniera molto debole, poco credibile, e che l’accordo raggiunto, sia, tutto compreso, un accordo “leonino”, nel senso che alla fine privilegerà in maniera clamorosa gli Stati Uniti rispetto all’altra parte contraente, l’Unione europea, che pure aveva qualche strumento per farsi valere. Non solo abbiamo un aumento enorme dei dazi all’importazione su una quantità di beni che peraltro non è stata ancora chiaramente definita – da una media del 4% si passa ad una del 15% – ma in più ci sono ancora una serie di cose non chiarite per alcune produzioni, tipo i prodotti farmaceutici, le auto. Non sappiamo ancora quale sarà il destino di questi che sono beni di largo consumo e che hanno un impatto notevole sulla bilancia commerciale. In più, ci sono tre impegni di natura “volontaria” che l’Unione europea si è assunta come completamento di questo accordo, cioè investimenti da parte di imprese europee nell’ordine di 600 miliardi negli stati Uniti, acquisti di gas liquefatto americano nell’ordine di 600-700 miliardi e acquisti, non meglio specificati nel quantitativo e nel valore, di armi americane. Difficilmente la Commissione europea può obbligare Paesi membri a investire negli Stati Uniti o può imporre alle compagnie petrolifere europee di acquistare gas americano. È una parte dell’accordo che denuncia la nostra debolezza, l’aver accettato impegni che molto probabilmente non saremo in grado di rispettare o far rispettare.
In questo ampio giro di orizzonte geopolitico, tornando all’Italia e a quello che dovrebbe essere il core business politico-diplomatico, nonché economico-commerciale, cioè il Mediterraneo, il Nord Africa e il Medio Oriente. Che bilancio si può fare, in questo ambito, dell’operato del governo Meloni? È molto complicato dare un giudizio, perché l’area alla quale lei si riferisce è estremamente complessa, caratterizzata molto spesso da dinamiche conflittuali, soprattutto per quello che riguarda il Mediterraneo orientale e tutto quello che succede attorno a Israele. Su quello scacchiere lì, l’Italia, ma lo stesso si può dire per l’Unione europea, non ha svolto un ruolo di particolare rilievo e visibilità. Abbiamo una situazione critica, complessa, da gestire anche con alcuni Paesi vicini che per noi sono particolarmente sensibili. Penso alla Libia, dove siamo ben lungi da una stabilizzazione della situazione. Funziona meglio, il nostro rapporto, con altri Paesi dell’area del Mediterraneo, come la Tunisia e l’Algeria. Paesi con i quali sul piano bilaterale siamo riusciti a stabilire un rapporto collaborativo e, complessivamente, positivo. Ma non si può dire che si è vista una svolta decisiva da parte del governo Meloni in materia di politica mediterranea dell’Italia. Così come, purtroppo, non si può dire che si sia assistito ad una svolta significativa da parte dell’Unione europea. Verrebbe da dire che siamo “in buona compagnia” in questa defaillance.
La grande maggioranza delle forze politiche, al governo e all’opposizione, non ha messo in discussione l’appartenenza dell’Italia all’Alleanza atlantica. Ma c’è modo e modo di esserne parte. Ambasciatore Nelli Feroci, non stiamo diventando sempre più vassalli che alleati? Questo è un tema molto complesso. L’alleanza atlantica sta vivendo una fase di mutazione, direi quasi genetica. Stiamo tutt’ora cercando di capire se, come e quanto questa Alleanza atlantica potrà continuare a fare affidamento sulle garanzie di sicurezza da parte del nostro alleato americano. Per ora ci siamo assunti un impegno molto oneroso di aumento della spesa militare, senza andare troppo per il sottile e senza vedere come questa spesa dovrebbe essere distribuita, articolata, organizzata tra i Paesi membri. Va detto con franchezza: siamo molto, molto preoccupati del rischio che gli americani possano a un certo punto dirci che la sicurezza dell’Europa è un problema vostro, ve lo dovete vedere voi, e che di fatto facciano venir meno quelle garanzie di sicurezza che si sostanziano nell’articolo 5 del Trattato istitutivo della NATO. È un momento davvero molto complicato, quello dell’Alleanza atlantica, di cui risente anche il modo in cui l’Italia sta nell’alleanza. Non vedo particolari problematicità perché, tutto sommato, ci muoviamo in un contesto coerente con quello dei nostri partners europei. Abbiamo accettato senza batter ciglio la richiesta americana dell’aumento della spesa per la difesa, ma non so se riusciremo a farvi fronte, il che vale anche per tutti gli altri. Con una preoccupazione maggiore, che è quella di vedere venir meno la garanzia di sicurezza americana nei confronti dell’Europa, che ci porrebbe in una situazione molto preoccupante, soprattutto nel caso di un aumento dell’aggressività del nostro vicino orientale, la Federazione Russa.
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